Disgrafia: un disturbo specifico dell'apprendimento sempre più presente fra i nostri studenti
E’ sotto gli occhi di tutti: le persone che possiedono la competenza del saper scrivere in modo leggibile e fluido sono diventate rare. Gli studenti a scuola rifiutano sempre più spesso di utilizzare il corsivo, preferendogli lo stampato maiuscolo. Gli adulti, disabituati all’uso della penna, ormai comunicano per scritto prevalentemente con la tastiera del pc, rischiando, come spesso accade, di trasformarsi in disgrafici di ritorno. Uno studio pubblicato dal Miur ci informa riguardo all’imbarazzante abbondanza di disturbi specifici dell’apprendimento nelle nostre scuole. In particolare la disgrafia, la cui presenza è aumentata negli ultimi tempi del 90%, sembrerebbe essere il dsa più frequente fra gli studenti . Definiamo innanzi tutto la disgrafia: si tratta di un disturbo dell’apprendimento che riguarda esclusivamente il gesto grafico e comporta una difficoltà importante di tipo percettivo-motorio nell’esecuzione della scrittura manuale, pur in assenza di deficit neurologico o intellettivo.
Con la legge 170/2010 sulle strategie dispensative e compensative, lo studente diagnosticato come disgrafico dal neuropsichiatra infantile ha ottenuto più tempo a disposizione per svolgere i compiti scritti o una quantità inferiore di materiale da trascrivere; (ad es., si ricorre all’uso delle fotocopie con gli esercizi da eseguire) e, quando necessario, può far ricorso alla tastiera del computer. Si tratta di una lettura di tipo medico che attribuisce alla disgrafia cause neurobiologiche innate. Col fare ricorso a queste strategie, è un po’ come dire che a un bambino di 8-9 anni che abbia qualche difficoltà a camminare speditamente, verrebbe fornita una sedia a rotelle, anziché offrirgli la possibilità di rinforzare la sua muscolatura sottoponendolo ad una serie di sedute di fisioterapia. Il rieducatore della scrittura, al contrario, ha una visione pedagogico-didattica che intende stimolare e sollecitare al massimo le potenzialità del soggetto, grazie al fatto che il cervello è un organo plastico capace di apprendere continuamente attraverso un esercizio continuo e mirato. Tale approccio afferma, inoltre, che le cause della disgrafia possono essere diverse e dunque i casi andranno valutati e trattati in maniera personalizzata: in breve, la disgrafia può essere provocata da cause socio-culturali, educativo-scolastiche o da difficoltà grafo-motorie. E’ importante perciò agire prima di tutto sulla prevenzione, fornendo ai bambini già in tenerissima età, gli strumenti utili ad apprendere i prerequisiti necessari ad imparare a scrivere. Se questo passaggio viene saltato o non è affrontato adeguatamente, bisognerà intervenire più tardi con un percorso di rieducazione della scrittura. Solo in ultima analisi si ricorrerà alle strategie dispensative e compensative, quando tutto il resto non abbia prodotto risultati apprezzabili.
Fermo restando che chi è severamente impedito nello scrivere a mano può ricevere, grazie a tali strategie, un indubbio aiuto al fine di procedere al pari dei suoi compagni negli studi curriculari, ci si chiede il perché di questa crescita esponenziale di ragazzi incapaci di conquistare un’abilità così specifica dell’Uomo: la stragrande maggioranza degli insegnanti lamenta di non riuscire più a trasmettere ai propri allievi tale competenza. E’ urgente un intervento che produca un’inversione di rotta; perché questo avvenga, è necessario comprendere bene le cause e la natura di tale fenomeno che non riguarda solamente la scuola italiana, ma gran parte del mondo scolastico occidentale. Intanto, si fa strada il sospetto che molte di queste diagnosi siano attribuite a dei “falsi positivi”: bambini e ragazzi privi di problematiche neurobiologiche innate, ma piuttosto privati – al momento giusto, in tenera età – degli strumenti necessari, preparatori all’apprendimento della scrittura (consapevolezza del proprio corpo, abitudini corrette, competenze elementari che preparino a una corretta presa dello strumento e ad un’adeguata postura, ecc).
Adeline Gavazzi-Eloy, nel suo saggio da pochi giorni tradotto in lingua italiana da Epsylon, Insegnare il piacere di scrivere a mano. Sfide difficoltà e recupero, così la definisce:
E’ un atto che richiede maturità biologica, intellettuale e affettiva, oltre che un lungo apprendimento. Quest’ultimo non si limita, infatti, all’acquisizione del codice grafico la cui conoscenza è assolutamente indispensabile, ma è necessario andare oltre affinché l’alunno possa appropriarsi del modello, organizzarlo e costruire la “sua” scrittura, cioè quella traccia originale e personalizzata in cui egli si riconosce.* (pag.11)
L’uomo, grazie al fatto di aver adottato una postura verticale, ha liberato le mani che hanno potuto esprimersi in innumerevoli modi grazie alla loro particolare flessibilità; il loro uso quotidiano, sempre più specializzato e diversificato ha portato con sé la crescita del cervello che si è notevolmente evoluto rispetto a quello degli altri animali. Le mani, rappresentate in un’ampia parte dell’encefalo, assumono un’importanza strategica per lo svolgimento di azioni concrete, ma anche per esprimere concetti astratti.
Senza dubbio, imparare a scrivere bene a mano è faticoso, ma utile: oltre a prevenire le difficoltà grafomotorie, tale competenza stimola la specializzazione dell’emisfero sinistro e sviluppa tutte le aree neurologiche coinvolte. Inoltre, imparare a scrivere bene favorisce tutti gli apprendimenti legati alla scrittura, aumenta il grado di correttezza ortografica, migliora la qualità e la quantità della produzione scritta; tutto ciò non può che influire positivamente sul rendimento scolastico generale e finisce per promuovere l’autostima e la motivazione alla conoscenza, allontando definitivamente lo spettro del possibile abbandono scolastico. Una volta acquisite le competenze di base, nulla vieterà di accedere al mezzo digitale; ma non prima di aver fatto esperienza concreta attraverso il corpo e gli strumenti di base… e non sempre, perché il cervello ragiona secondo principi di economia: quello che non serve, lo mette via per far spazio a nuovi apprendimenti e automatismi. Così si spiega la diffusa presenza della disgrafia di ritorno negli adulti.
Il bambino, nell’imparare a scrivere, ripercorre in pochi anni, la storia dell’Uomo. Dobbiamo pensare all’apprendimento della scrittura come a qualcosa di estremamente complesso, una tecnica che va appresa nel tempo, con l’esercizio; imparare a scrivere è un po’ come imparare a suonare uno strumento musicale: è necessario adottare una postura corretta affinché il corpo stabile permetta un movimento dettato da un gesto controllato, tonico e allo stesso tempo flessibile, rilassato; le dita poggiate su una tastiera di pianoforte o sulle corde di un violino, devono essere utilizzate sapientemente, così da non subire contrazioni dolorose; la natura della scrittura, e in particolare del corsivo, ha le stesse esigenze, ma raramente ci si attarda ad insegnare la corretta postura nello stare seduti al tavolo. Del resto, quando i bambini arrivano alla scuola primaria, hanno già automatizzato le loro abitudini che, se non adeguate, le insegnanti faticheranno moltissimo a correggere: un motivo questo per insistere sull’importanza determinante della prevenzione in tenerissima età, quando ci si aspetta che la famiglia e la scuola dell’infanzia insegnino le corrette abitudini che si trasformeranno in automatismi utili ad utilizzare il corpo e le mani nel modo più funzionale e senza eccessiva fatica.
Vogliamo poi portare l’attenzione su un’altra particolarità della scrittura: a differenza del linguaggio parlato che si apprende per imitazione, la scrittura necessita di un insegnamento tecnico preciso e puntuale e di tanto allenamento: non è utile attendere che fiorisca da sola grazie alla maturazione del bambino: questi va assolutamente guidato e accompagnato. La domanda che viene posta spesso ai rieducatori della scrittura, sostenitori della scrittura a mano, è se valga la pena insistere con questa abilità così complessa dal momento che ormai l’utilizzo degli strumenti digitali è diffuso ovunque e a qualsiasi età.
Se è innegabile che il ricorso alla tecnologia è indispensabile, specialmente in questi tempi di pandemia, numerosi studi mettono sempre più spesso in luce le controindicazioni pure esistenti di un suo utilizzo troppo precoce e frequente. Ce lo spiega bene, fra gli altri, il neuropsichiatra tedesco Manfred Spitzer nei suoi numerosi interventi e saggi:
I risultati dei primi studi su questo argomento indicano che un’accresciuta digitalizzazione della scrittura, che fa la sua comparsa già nell’infanzia, ha conseguenze negative sulla capacità di lettura di bambini e adulti. Rispetto all’approccio con la matita, l’apprendimento delle lettere attraverso la tastiera porta a una difficoltà maggiore nel riconoscimento delle singole lettere. (…) Studi di neuroimaging mostrano che il riconoscimento di lettere imparate per mezzo della scrittura con la matita portano a una maggiore attività nelle regioni motorie del cervello, cosa che non accade per le lettere apprese tramite la tastiera.*(Manfred Spitzer, Demenza digitale, Corbaccio ed., pag.159).
L’argomento è molto vasto e tocca svariate tematiche sociali che ci allontanerebbero dal nostro discorso focalizzato sulla scrittura. E’ necessario però sottolineare che l’utilizzo abituale e frequente del computer nei primi anni di vita di un bambino può provocare disturbi dell’attenzione e successivamente dislessia. Incide inoltre sulla capacità mnemonica e di orientamento nello spazio.
Possiamo lasciare una traccia grafica su un foglio con una penna grazie al coinvolgimento di certe aree del cervello, responsabili di quella determinata funzione; quando ciò avviene, un po’ come succede ai muscoli nel corso di un allenamento costante, l’organo cresce, si sviluppa, si specializza; lasciati a riposo, muscoli e cervello si atrofizzano. Ne deriva che delegare agli strumenti digitali le innumerevoli funzioni del cervello coinvolte mentre scriviamo, comporta una riduzione delle sue performances. Non a caso il prof. Spitzer ha intitolato uno dei suoi saggi più conosciuti “Demenza digitale”.
In conclusione, il bambino va portato avanti fino al limite delle sue potenzialità inespresse. La famiglia, la scuola e il rieducatore della scrittura dovrebbero lavorare in sinergia, facendo leva sulle sue abilità più spiccate per aiutarlo a recuperare il necessario senso di fiducia nelle proprie possibilità. Non riuscire a scrivere non significa “essere un tutt’uno con la propria scrittura”, essere sbagliato come persona, essere pigro o, peggio, poco intelligente. Riaccesa la fiducia e la voglia di mettersi di nuovo in gioco, il rieducatore della scrittura che lo prenderà in carico, lo porterà seduta dopo seduta fin dove lui potrà arrivare, guidato, aiutato, accolto da un adulto che comprende il suo disagio e cammina al suo fianco, al suo passo, verso un gesto grafico che non provochi più dolore, che produca una traccia leggibile nella quale possa finalmente riconoscersi con serenità.
Se al contrario si sceglie la strada più breve, quella del ricorso ai metodi dispensativi e compensativi senza rivedere tutto il percorso fatto dal bambino negli anni di vita precedenti ed eventualmente colmando quei vuoti di sapere che si sono prodotti suo malgrado, finiremo per rubargli la possibilità di rendersi realmente autonomo. Non ce lo possiamo permettere: i bambini devono riappropriarsi del proprio corpo e delle abilità di base; la sedia a rotelle, così come il computer andranno riservati a chi non abbia altra scelta.
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Dott.ssa Alessandra Ricci Grafologa dell’età evolutiva con specializzazione in rieducazione della scrittura. Desideri vedere la sua intervista? Clicca su questo link.
Responsabile del Dipartimento Scuola del Cesiog
E-mail: sempreilprimogiorno@gmail
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