“Io non voglio che mi venga detto che sono bravo a leggere, io voglio che mi si dica che sono stato bravo a sopportare tutta la fatica che ho fatto per finire di leggere questo brano!”
Daniel, 10 anni
I bambini, fin da piccolissimi, imparano che le proprie prestazioni, scolastiche e non, sono seguite da valutazioni, positive o negative. Queste possono generare ansia, paura di non essere sufficientemente bravi, di non farcela e ostacolare lo sviluppo del piacere di apprendere.
Questo rischio è ancora più alto in quei bambini che presentano Disturbi Specifici dell’Apprendimento perché, come conseguenza dei fallimenti scolastici che possono aver vissuto, sentono fortemente l’attenzione sulla prestazione.
È importante riflettere su due aspetti, quello delle parole che sarebbero più opportune da dire rispetto a quelle da evitare. Spesso ad un bambino che si trova in difficoltà a scuola, si è tentati al ribadire che si dovrebbe impegnare maggiormente per raggiungere risultati più soddisfacenti.
Questa frase può essere incoraggiante e stimolante, generare effetti positivi sul bambino che può percepire di potercela fare e che ha delle risorse che, con un impegno superiore, possono emergere al meglio.
Talvolta però, può essere mal interpretata da un bambino che ha difficoltà scolastiche tanto da credere che solo l’impegno potrà compensarle mentre, chi è bravo, non necessita di applicarsi.
È sottinteso che questo genere di credenza porta a considerarsi incapaci personalmente senza valutare la difficoltà o la non adeguatezza di un compito. In questi casi, la frase “puoi impegnarti di più”, potrebbe essere sostituita dall’invito a svolgere esercizi aggiuntivi o a ripassare alcuni concetti, assumendo quindi un atteggiamento che privilegi, sì un maggiore impegno, ma che circoscrivi le difficoltà, mostrandosi propositivi nel trovare insieme a lui strategie efficaci per fronteggiare il compito.
Può capitare che nel tentativo di motivare ad un maggior impegno, si propongano modalità competitive che, però, sono nuovamente orientate solo sulla prestazione. Questa ne sarà migliorata, ma, probabilmente, con risultati solo a breve termine perché, se è assente la motivazione al compito, ovvero quella intrinseca, il bambino tenderà a non affrontarlo più se non certo di un premio finale o, peggio, per la minaccia di una punizione.
La competizione sul lungo termine, infatti, riduce l’interesse spontaneo per un’attività. Se al bambino non viene fatta percepire l’urgenza che si finisca presto e alla perfezione, si avrà modo di considerare con lui il percorso che ha compiuto e comprendere insieme dove ha commesso l’errore per potervi trovare rimedio, offrendogli poi la possibilità di svolgere nuovamente quel passaggio in cui in precedenza incappava, utilizzando le giuste strategie.
A tal proposito, è importante anche la costruzione di un clima scolastico orientato alla cooperazione, piuttosto che alla competizione e alla valutazione che tendono ad acuire ancor di più le difficoltà di un bambino o di un ragazzo con Disturbi Specifici dell’Apprendimento nel definire un positivo concetto di sé.
Una frase che può venire detta frequentemente è: “sei bravo/a!”, anche a fronte di compiti non particolarmente eccellenti, al fine di incoraggiare.
È convinzione diffusa pensare che rafforzi l’autostima, ma in realtà è veicolo di un messaggio ambiguo perché il bambino o il ragazzo che ha difficoltà nell’apprendimento, coglie la discrepanza fra l’esito della sua prestazione e il feedback ricevuto e può iniziare a credere che non ci si aspetti molto da lui, causando demotivazione e sconforto.
Quel “sei bravo/a!”, potrebbe essere invece sostituito con un rinforzo sul comportamento, attraverso il quale si sposta il focus, ad esempio, sulle strategie funzionali che ha usato per fronteggiare il compito o sull’attenzione e l’impegno che mostrato, assumendo, pertanto, un atteggiamento volto a far sperimentare il successo, accompagnando il bambino a riconoscere le cause interne e controllabili che lo hanno reso possibile.
Un’altra espressione consueta è: “con me fa!”. Anche se, apparentemente, si vuole comunicare che quel bambino o quel ragazzo con disturbi dell’apprendimento con determinate persone e in specifici contesti, riesce nel compito, ad una lettura più attenta, si evince che nuovamente la motivazione viene spostata all’esterno, anziché all’interno.
Questa frase non li aiuta a comprendere il legame che c’è fra i propri sforzi personali e i risultati, bensì li può portare a convincersi di non essere capaci senza il supporto di quella specifica persona.
Per questa ragione, i tutor dell’apprendimento, nello specifico, devono impegnarsi a trasmettere l’idea che i risultati ottenuti sono imputabili al proprio apprendimento e non a quello dell’operatore di riferimento, incoraggiandolo a perseguire i propri obiettivi, a diventare autonomo e autoregolato in ogni contesto.
Un altro atteggiamento che può rivelarsi utile da adottare consiste nel fornire aiuto al momento giusto.
Offrire sostegno spontaneamente e non su richiesta, può far sorgere nei bambini o ragazzi con difficoltà scolastiche, un pensiero distorto e inadeguato che lo fa sentire non bravo, perché se lo fosse, non lo riceverebbe o peggio, può credere di riuscire solo se aiutato. L’aiuto non richiesto può essere percepito come un’intrusione e può facilmente far sorgere un’attribuzione delle proprie difficoltà alla mancanza di abilità.
Lasciare che un bambino finisca il compito e dargli, pertanto, la possibilità di apprezzare il lavoro che ha svolto può essere importante, più dell’intervento appena si scorge un errore. Gli errori possono essere discussi alla fine per aiutarlo a riflettere sui suoi processi mentali e a capire che l’errore può essere un’occasione di crescita.
Può capitare però che un bambino in difficoltà, se lasciato solo, non chieda aiuto perché non si accorge delle difficoltà o, più frequentemente, perché condizionato da sentimenti di vergogna o di paura. In questi casi è importante che l’adulto di riferimento sia attento e che lo aiuti ad auto valutarsi creando una motivazione a chiedere aiuto.
È importante quindi, in caso di Disturbi Specifici di Apprendimento, affiancare i bambini e i ragazzi non solo con un training specifico per il disturbo presentato, ma anche con un sostegno psicologico che si prenda cura degli aspetti motivazionali, emotivi e dei suoi stili attribuzionali di causa e responsabilità personali per i risultati ottenuti, sostenendolo nel riconoscimento e nella gestione delle emozioni come, ad esempio, la vergogna.
Scritto da Marika Lovecchio Psicologa
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